LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, SE DUBITI DEL VECCHIO SAPERE"

creata il 7 giugno 2010

 

 

 

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C’è una domanda simmetrica rispetto a quella, in un certo senso più banale, relativa al perché la filosofia cartesiana sia stata vittima di tante misinterpretazioni: dal platonismo di Cartesio al suo supposto dualismo mente/corpo – tanto per citare le sciocchezze più diffuse per via accademica. La volontà di ignoranza spiega abbastanza bene l’intera faccenda, nonché il cospicuo ritorno commerciale, che regolarmente, da Leibniz in poi, producono libri e saggi intorno agli errori di Cartesio. Non si tollera che a certe questioni si diano risposte in linea di principio confutabili, quindi modificabili. Cartesio presuppone un lavoro intellettuale in chi si avvicina alla filosofia. Ma, in generale, il lavoro intellettuale fa orrore. Quindi, si preferisce togliere di mezzo, dileggiandolo e calunniandolo, quando non togliendolo fisicamente di mezzo, chi invita a un’etica del “pensar bene” (Pascal). Se pensi bene, rischi di pensare quel che è bene per te. Ma proprio questo è il pericolo: che il tuo bene individuale vada bene a te, ma non collimi con il bene generale voluto e imposto dal padrone.

Ecco, allora, la domanda:

Perché la filosofia del dubbio è arrivata così tardi nella storia del pensiero? Perché è stata preceduta dallo scetticismo, che nega il valore euristico dubbio? Perché nasce con Cartesio solo nel XVII secolo insieme alla scienza galileiana?

Kahneman dà una risposta interessante perché, pur essendo formulata in termini cognitivisti, conserva tracce dell'imprinting cartesiano (cfr. Regola Terza di Regulae ad directionem ingenii (1)). Come Cartesio Kahneman distingue tra intuizione e deduzione (ragionamento), la prima essendo cognizione immediata, come la percezione, mentre la seconda sarebbe un processo psichico mediato.
Nella Nobel Lecture dell’8 dicembre 2002 si legge:

“L’incertezza è scarsamente rappresentata nell’intuizione, come pure nella percezione. In effetti, il concetto di euristiche del giudizio è stato inventato per dare spazio all’osservazione che i giudizi intuitivi di probabilità sono mediati da attributi quali la somiglianza e il flusso associativo, che non sono intrinsecamente legati all’incertezza. […] Il dubbio è un fenomeno del sistema 2 [o del ragionamento, contrapposto al sistema 1, o dell’intuizione], è un apprezzamento metacognitivo della capacità di pensare pensieri incompatibili relativi alla stessa cosa”. (in Critica della ragione economica. Tre saggi: Kahneman, Mc Fadden, Smith, a cura di M. Motterlini e M. Piattelli Palmarini, Il Saggiatore, Milano 2005, p. 89.)

Secondo Kahneman, il dubbio, essendo il portato di un processo cognitivo più elaborato della percezione e dell’intuizione, emergerebbe più tardi nell’evoluzione del pensiero. L’uomo primitivo, dovendo scegliere se restare o scappare davanti alla fiera non ha dubbi: scappa. Questo è un luogo comune cognitivista, a volte ammantato di scientificità. Nello stesso luogo citato leggiamo:

“Il risultato centrale degli studi sulle decisioni intuitive, così come è stato descritto da Klein (1998), è che decisori esperti, i quali operano sotto pressione, come i comandanti di squadre di pompieri, raramente devono scegliere tra opzioni, perché nella maggior parte dei casi alla loro mente si presenta un’unica opzione. Le opzioni respinte non sono rappresentate” (ibidem).

Tuttavia, la teoria di Kahneman, pur essendo cartesiana nell’impianto, non risponde alla terza domanda, che non prende neppure in considerazione. Del resto Kahneman – rivelandosi aduso alle pratiche accademiche – non cita Cartesio come fonte della propria teoria. La mia spiegazione è più semplice e più esauriente dell’approccio di Kahneman, perché affronta anche la terza domanda. Perché la filosofia del dubbio nasce con Cartesio solo nel XVII secolo insieme alla scienza galileiana?

La prima considerazione è che il dubbio non può emergere all’interno di un sistema dottrinario, come quelli che dominavano il pensiero prima del XVII secolo. La ragione è semplicemente perché le dottrine si reggono su conferme e censurano sistematicamente ogni possibilità di messa in dubbio, per non parlare delle confutazioni. All’interno di un sistema dottrinario il dubbio non è politicamente corretto: offende l'insegnamento ortodosso. Nel contesto dottrinario, poi, le confutazioni possono emergere solo come eresie. Le eresie sono sempre delle dottrine. Sono le dottrine figlie, che si contrappongono irrimediabilmente alla dottrina madre. In quanto tali sono destinate a rimanere inconfutabili (deliranti) come la dottrina da cui derivano per deviazione. La filosofia del dubbio nasce in epoca scientifica perché la scienza, a differenza della dottrina, accanto alle conferme, fa posto alle confutazioni. Anzi, alle conferme la scienza preferisce le confutazioni, assestandosi così a una distanza incolmabile rispetto ai sistemi dottrinari (filosofie, teologie, superstizioni e tutte le forme di pensiero senza oggetto).
Posso precisare meglio la struttura dello strato roccioso su cui si fondano le dottrine prescientifiche. Il terreno epistemico su cui le teorie scientifiche non possono attecchire è il terreno dell’interpretazione e del commento.

È facilmente comprensibile come e perché il commento possa essere messo al servizio della dottrina. Fin dai primi passi nella scuola dove si insegna una certa dottrina, il giovane catecumeno impara l’arte del commento. Non l’impara in astratto. L’impara per imparare la dottrina del maestro, che i presbiteri – per esempio gli psicanalisti didatti – si incaricano di trasmettergli. Il commento amplia, sviluppa, conferma e al tempo stesso trasmette la parola del maestro. Questo ogni maestro, soprattutto se è falso, lo sa bene e organizza la propria scuola intorno a gruppi di studio – Lacan li chiamava cartel – dove i giovani imparano a ruminare la parola magistrale e gli schematismi dell’ortodossia, successivamente stabiliti dai presbiteri. Ciò che esula dallo schema dell’ortodossia è delirio – de lira, fuori dal solco. Dal punto di vista scientifico il commento è totalmente inservibile. Il commento trasforma la scienza in applicazione tecnica, che non produce nulla di nuovo. Ma se non c’è novità non c’è scienza.

Più riposta è la funzione dell’interpretazione e più difficili da stanare sono le fallacie ermeneutiche. Sono inevitabili? E come riconoscerle?

Tutto comincia dall’analogia.

Cosa significa “analogia”? Viene dal greco antico, analoghizomai. Significa “calcolo in modo proporzionale”, per esempio quando calcolo una percentuale.
Una semplice considerazione storica aiuta a capire la dimensione etico-estetico-ontologica del problema sottostante. Dal 300 a.C. al 1800 d.C. si contano più di duemila anni: tanto a lungo sono durati gli sforzi per pensare una geometria non euclidea. Praticamente solo gli ultimi trent’anni a cavallo tra il XVII e il XIX secolo sono stati quelli fecondi, in cui si è cominciato a intravedere una via d’uscita dalla geometria euclidea. Per il 98,5% del tempo i geometri hanno tentato invano di dimostrare il quinto postulato di Euclide, dell’unicità della parallela. Lo formulo in questo, che non è il modo euclideo originale, perché in questa forma getta luce sulle considerazioni seguenti relative all'uno e all'unicità:

Dati una retta e un punto che non le appartiene, per quel punto passa una e una sola retta parallela alla retta data.

Perché incaponirsi a dimostrarlo? Per pure ragioni estetiche? Per ragioni di prestigio intellettuale? No, giocavano ragioni economiche. L’assioma di unicità della parallela fonda il calcolo lineare, che è come dire tutto il calcolo noto nell’antichità, basato su considerazioni di similitudine tra triangoli (teorema di Talete) e su considerazioni su triangoli rettangoli (teorema di Pitagora). Togli quell’assioma e decade ogni possibilità di misurare la terra: la geo-metria non è più possibile. (Oggi sappiamo che sarebbe possibile con altre metriche, diverse da quella euclidea, ma allora non lo si sapeva).
Quale fu l’errore di tanti valenti geometri? Perché un Proclo o un Gerolamo Saccheri fallirono? Forse non erano bravi geometri? No, erano bravissimi! Il loro errore fu “filosofico”. Pretendevano dimostrare il postulato della parallela rimanendo dentro la geometria euclidea. Ebbene, cosa c’è di male in questa pretesa? Tutta la geometria euclidea si fa così: si studiano proprietà di figure immerse nello spazio euclideo e si dimostrano rigorosamente con i metodi proposti da Euclide: la costruzione e la riduzione all’assurdo. (L’induzione all’infinito non era ancora stata inventata. Perciò Euclide non riesce a formulare in forma moderna il teorema fondamentale dell'aritmetica che, per ogni numero intero, afferma l'esistenza e l'unicità della scomposizione in fattori primi).
Il punto caratteristico della matematica antica era proprio questo: gli antichi non solo non conoscevano spazi diversi da quello euclideo, ma neppure si ponevano il problema se esistessero. La geometrica euclidea era una e unica – e qui mi avvicino alla considerazione filosofica – la geometria euclidea, con la sua unica parallela, era una e unica come uno e unico era l’essere parmenideo. Lo spazio era euclideo, l’essere parmenideo. (Heidegger tenterà di prolungare la successione: il tempo è heideggeriano). Come non c'erano altri esseri diversi dall'essere che è, così non c'erano altri spazi diversi da quello che si conformava alla condizione stabilita dal postulato della parallela. Ogni evento geometrico doveva avvenire all’interno dello spazio euclideo e lì assumere un solo essere, quello parmenideo.
In questo contesto, la figura dell’unicità della parallela, che a questo punto diventava una figura ontologica, non poteva essere dimostrata né per costruzione né per assurdo. Non poteva essere dimostrata per costruzione all’interno della geometria euclidea perché si sarebbe dovuto dimostrare che tutte le figure, che apparentemente violavano l’assioma, erano da opportune trasformazioni dello spazio euclideo in se stesso portate a coincidere con la figura standard, che non lo viola. Ma questo approccio era impensabile ai tempi di Euclide, perché presupponeva la deformazione dello spazio che, invece, era unico e indeformabile, eternamente uguale a se stesso come l'essere che è e il non essere che non è.
D’altra parte, anche la dimostrazione per assurdo era impossibile, perché la negazione del quinto postulato poneva automaticamente fuori dallo spazio euclideo in uno spazio che per l’antico geometra semplicemente non esisteva. Tanto dovrebbe bastare a dare un’idea dell’enormità della performance della troika tedesco-ucraino-ungherese, che inventò la geometria non euclidea: Gauss, Lobacevskj e Bolyai, seguiti a ruota dalla coppia franco-tedesca: Riemann e Poincaré, che riuscirono a concepire con rigore la pluralità degli spazi non euclidei – quando si dice riforma dell’intelletto.

La situazione della geometria greca, ultimamente codificata negli Elementi di Euclide, era a tutti gli effetti imbarazzante, ma non imbarazzò il filosofo, che la seppe sfruttare a proprio vantaggio, o meglio a vantaggio del padrone presso cui prestava servizio. Con un semplice trucco intellettuale Aristotele eresse a metodo e principio ontologico del pensiero ortodosso – il pensiero ontologico – proprio la nozione di analogia o “calcolo proporzionale”. Tipicamente Aristotele, a servizio di Filippo il Macedone, riuscì a blindare due volte ­– un vero e proprio doppio legame – l’analogia: una volta ontologicamente, nell’essere, e una volta ermeneuticamente, nell’interpretazione (non si diceva ancora: nel sapere). La doppia blindatura garantiva l’unicità dell’essere e del sapere e del legame tra i due – legame che non poteva essere infranto da nessun dubbio. L'approccio dottrinario era garantito come vero per l'eternità. Cartesio, il dissacratore della Scolastica, poteva aspettare. L’essere è e rimase per millenni uno solo: quello stabilito e voluto dal padrone, lo stesso che era ribadito dal commento e confermato dall'interpretazione del suo servo, il filosofo, opportunamente detto therapon, terapeuta o colui che si prende cura del padrone. A questo proposito bisogna riconoscere che il lavoro controontologico degli Scettici, pur immane, rimase senza immediati risultati apparenti. Non scalfì minimamente il lavoro dell’analogia, preposta da Aristotele al “compito della civiltà” di creare e interpretare l’essere. L’essere, che pure “si può dire in molti modi”, è originariamente analogico: “in ogni categoria c’è dell’essere” (Aristotele, Metafisica, XIV, 6). Pure l’interpretazione è originariamente analogica. “La vecchiaia è la sera della vita”, mobilita la metafora per accrescere con certezza il sapere di quel che non si sa (la vecchiaia) attraverso ciò che si sa (la sera). Vedete la proporzione? La vecchiaia sta alla vita come la sera sta al giorno. Chi può dubitare della proporzione? Qui addirittura raddoppiata sui due versanti: ontico ed epistemico. Ricordo che il calcolo delle proporzioni fu fondato da Eudosso di Cnido, che lo estese anche a quantità irrazionali. Tout se tient. (2) Questa interpretazione ontologica arriva a vele spiegate fino ai nostri giorni: il sogno è la metafora che interpreta il complesso di Edipo, in Freud, e lo fa rivivere nei suoi pazienti; la Lichtung (schiarita) è la metafora stessa che porge l’essere all’esserci, in Heidegger. La metafora classica, quella freudiana compresa, svela l'essere che c'è già. La metafora heideggeriana porta l'essere che non c'è ancora a esserci. (3)

A questo punto almeno due cose dovrebbero essere chiare.

La prima è che se l’analogia prolunga il vecchio, dall’ermeneutica che sfrutta l'analogia non c'è da aspettarsi che esca mai nulla di nuovo. Anzi, l'ermeneutica sarà di ostacolo sistematico all'emergenza del nuovo. E questo è un buon risultato per il padrone. Grazie all'analogia l’essere si conserverà in eterno senza deviazioni rispetto alla volontà di chi comanda. L’immortalità dell’anima è un semplice corollario della continuità dell’essere, premio per il buon servigio reso dall'anima bella a chi stabilisce le cose come stanno. Epistemologicamente parlando, l’analogia è una conferma. Ma, se si danno solo conferme e mai confutazioni, la conservazione è garantita. È come se in un regime politico non esistessero partiti d’opposizione. Vengono così garantite la pace sociale, la conservazione della volontà del padrone e il conformismo sociale, conforme benché delirante, incarnato da qualche religione di stato (non importa quale).

La seconda è che il calcolo delle proporzioni, calcolo che produce certezze anche nei casi più difficili, quelli che coinvolgono le quantità alogos, o irrazionali, insomma l'arte dell'interpretazione analogica ha per millenni ritardato la nascita del calcolo dell'incertezza, cioè il calcolo delle probabilità. Detto in termini psicanalitici, l'interpretazione “proporzionale” ha impedito al soggetto dell'incertezza di misurarsi con la propria ignoranza per trasformarla in sapere. Ma senza calcolo dell'incertezza, senza un soggetto che realizzi la performance di passare dall'incerto al certo, perché preferisce non abbandonare le sponde sicure dell'ermeneutica, non può darsi scienza congetturale. Può darsi solo conoscenza certa come adeguamento dell'intelletto alla cosa. E questa si adegua meglio di quella alla volontà del padrone.

La solidità – anche politica – dell’impianto ontologico-ermeneutico dell’analogia – questo Leviatano intellettuale – non cominciò a vacillare sia in filosofia sia in matematica se non molto tardi con la geometria di Cartesio (1627). Non voglio perdere l'occasione per ricordare che il Discorso sul metodo, dove Cartesio propone la sua formula del dubbio – dubito ergo sum – non è altro che un’appendice o, se si vuole, una postfazione alla sua Géometrie. Cartesio aveva delle buone ragioni per non apprezzare Euclide. In effetti, i sistemi di equazioni cartesiane vanno oltre Euclide. Eguagliate a destra a zero, rappresentano l’equivalente delle figure euclidee (linee e superfici). Eguagliate a sinistra a nuove variabili, rappresentano deformazioni dello spazio o nuovi spazi – salvo unificare i due procedimenti nella teoria delle varietà, con cui Poincaré inaugurerà la topologia moderna alle soglie del XX secolo. Il punto fermo è che finalmente con Cartesio lo spazio si avvia a non essere più uno. Contemporaneamente l’essere perderà l’univocità plotiniana. (Non subito e non definitivamente. Leibniz rilancia la palla heno-ontologica che arriva fino a Kant in terza base). Con Cartesio l’essere non è più uno e indipendente (in realtà, dipendente dalla volontà di potenza dell'uno: il padrone unico), ma diventa un effetto del sapere. Solo allora, con questa trasformazione epocale, comincerà a essere concepibile una filosofia non categorica del dubbio, cioè una filosofia non ermeneutica, insieme a una matematica degli spazi e non solo delle figure, date nell’unico spazio, stabilito dal padrone dei mezzi di produzione – lo spazio, cioè, dove si misurano i suoi terreni agricoli. Certo, sopravvivono tuttora, nella modernità, forme antiche di pensiero. Sono fossili del pensiero, per esempio, l’idealismo di Hegel, la fenomenologia di Husserl, nonché la psicanalisi di Freud. Sono avatar dell’ontologia aristotelica, certa e certissima, originariamente ostile all’epistemologia del dubbio. Proponendo un’ermeneutica delle formazioni dell’inconscio, all’interno della metapsicologia delle pulsioni, che sono reincarnazioni delle cause aristoteliche, la psicanalisi freudiana si è configurata come una forma vetusta di pensiero, nonostante abbia preso le mosse da una congettura non euclidea, relativamente moderna: l'esistenza, cioè, di un sapere al di là del sapere cosciente. Ma riconoscere la modernità di Freud significa fare un primo passo al di là del freudismo, che ha congelato il pensiero di Freud nelle categorie interpretative – gabbie eterne e indubitabili – di Aristotele.

Non salvi nulla del pensiero antico?

Certo, non sono del tutto iconoclasta. Salvo la dianoia. Salvo il conoscere attraverso, purché sia l’attraversamento giusto e fecondo: l’attraversamento scientifico del dubbio. Prima che sia troppo tardi.

Note

(1) Per intuizione (intuitum) non intendo la fluttuante attestazione dei sensi o il giudizio fallace di un’immaginazione scombinata, ma il concetto di una mente pura e attenta tanto ovvio (facilem) e distinto che, per quanto ne comprendiamo, non rimangano ulteriori dubbi; ossia, ma è lo stesso, un concetto indubbio della mente pura e attenta, che nasce dalla sola luce della ragione (rationis luce), addirittura più certo, perché più semplice, della deduzione, la quale tuttavia può essere fatta male dall’uomo, come abbiamo già notato.
Così ognuno può intuire con la mente che esiste, che pensa, che il triangolo ha solo tre lati, che la sfera ha un’unica superficie e cose simili, di gran lunga più numerose di quanto non riconoscano i più, che disdegnano di rivolgere la mente a tali ovvietà. […]
Certezza ed evidenza dell’intuizione non sono richieste solo per enunciati ma anche per qualsiasi altro discorso. Infatti, per esempio, si dia questa conseguenza: 2+2 fa lo stesso che 3+1. Non solo si deve intuire che 2+2 fa 4 e che 3+1 fa 4, ma in più che da queste due proposizioni segue di necessità la terza.
Da qui si potrebbe discutere perché oltre l’intuizione abbiamo aggiunto un altro modo della conoscenza: quello deduttivo.

Per deduzione intendo tutto ciò che si conclude necessariamente da cose note con certezza.
Si è dovuto procedere così perché molte cose, benché per sé non evidenti, si sanno con certezza a patto di dedurle solo da principi veri e noti attraverso un moto continuo e ininterrotto della cogitazione che perspicuamente intuisce le singole cose. Non diversamente sappiamo che l’ultimo anello di una lunga catena si connette al primo, anche se non contempliamo con uno unico colpo d’occhio tutti gli anelli intermedi, da cui dipende la loro connessione, ma li passiamo in rassegna uno dopo l’altro e ricordiamo che i singoli anelli sono vicini l’uno all’altro dal primo all’ultimo.
Distinguiamo, dunque, l’intuizione della mente dalla deduzione certa per il fatto che nella seconda e non nella prima si concepisce un moto o una certa successione. Inoltre nella prima e non nella seconda è di necessità presente un’evidenza, mentre la seconda e non la prima deriva la propria certezza dalla memoria.

Da tutto ciò si capisce come si possa dire che le proposizioni conclusive, ottenute immediatamente dai primi principi, sono conosciute in modi diversi: ora per intuizione, ora per deduzione. I principi stessi solo per intuizione, le conclusioni remote solo per deduzione. (Torna su)

(2) La teoria di Eudosso, perfetta nel suo genere, cioè perfettamente adeguata al calcolo delle proporzioni, persino nella forma moderna di calcolo verttoriale, confluì nel V Libro degli Elementi di Euclide. Ciononostante Galilei avvertì l'esigenza di riformare quel libro, per approntare un nuovo calcolo più adeguato alle esigenze della fisica che stava inventando. A Galilei non riuscì la riforma dell'intelletto "proporzionale". Ci riuscirono Fermat e Cartesio, Leibniz e Newton. Ci sarebbe qui da aprire un interessantissimo capitolo di storia della matematica, dove si chiarisca una volta per tutte che la matematica greca fu una matematica delle grandezze, non dei numeri – una matematica senza funzioni numeriche, ma solo con proporzioni tra misure, insomma, una matematica ermeneutica. (Torna su)

(3) In psicanalisi chi tentò di schiodare la metafora interpretativa dall'ontologia aristotelica fu Jacques Lacan. La sua arruffata teoria del manque-à-être e del semblant va in questo senso, che è il senso giusto. Ma Lacan rimase sempre logocentrico, quindi "proporzionale". Ebbe intuizioni giuste che, come Freud, travestì con vecchia filosofia. (Torna su)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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